XI [11/11/2011]

L’11 è un numero isiaco.
Lo dice anche Apuleio nei “Metamorphoseon libri XI”: “Undici libri di Metamorfosi”.
Che fra le altre cose è un romanzo iniziatico (di formazione, volendo), la cui chiave di lettura sta nella favola di Amore e Psiche e il cui fulcro mistico è Iside.
L’11 infatti è il numero di Iside: la dea della Luna, degli Inferi e della resurrezione, della magia e di altri misteri.
Iside è Persefone, in Grecia. Ma ha anche, in parte, gli stessi attributi di Demetra.
È la sintesi di tutte le implicazioni della donna.

L’11 gennaio (l’11/01) è stata l’ultima volta che l’ho visto.
Sei mesi dopo – sei grani di melagrana – l’11 giugno, è stata la seconda volta.
Avevo anche postdatato senza saperlo la lettera: inviata l’8, datata per errore all’11.
Chissà chi mi guidava, allora.
Gli ho letto il mio (il suo) racconto, quella sera di giugno.
Non so né se, né come la ricordi lui, quella notte: io mi ricordo che avevo il cuore gonfio di emozioni in subbuglio, e non è una cosa a cui ho mai più permesso di succedermi, dopo di lui.
Credo che sia stata anche una delle poche volte in cui – forse, in uno squarcio – ci siamo dati spazio dal profondo e ascoltati - o sentiti – a vicenda.

Nonostante tutto, avevo deciso di crederci con tutte le mie inadeguate forze, nella resurrezione.
Ma non sono finite quel giorno 11, le sofferenze.
Non sono finite neanche ora: sono sedate, e vegliate con cautela (riposino in pace), in attesa di morire.
Finché non si abbassano, a volte, le difese immunitarie affettive ed emotive: allora piove.
Ora che metto in scatola – di nuovo, come tante altre volte nella mia vita – libri, fotografie e ricordi da portare via, non ha più importanza di chi sia la maggiore responsabilità: quello che rimane è il fatto, e l’armadio mezzo aperto, pieno di buio.
C’è sempre qualcuno che sceglie o il nostro bene in vece nostra, o il nostro male in cambio del proprio bene – che poi non si capisce mai quale delle due sia la verità.
Per questo l’ho poi fatto, quello che volevi, dopotutto, hai visto: ho trovato la ragione valida, e il modo, di obbligarmi definitivamente a questo.
E perciò ora sì ti posso amare: nel ricordo dei nostri rari, e difficili, momenti belli.
Visto che non ho saputo – e non ho potuto – amarti anche per il bene tuo, ora ti posso amare per me stessa, come si amano i morti. Dal momento che io stessa mi sono sentita morta troppo spesso, in quel nostro niente, in cambio di rare briciole di felicità o di pace.
Così, nella resurrezione non è solo che io non ci creda più: è che non ho più intenzione di sperare e farmi male.

E poi?
E poi, niente: si svuota tutto, dove c’è per sempre l’abisso che colmava lui – e che è la sua impronta. L’acqua dolce che scorreva sui vetri, dentro diventò un lago salato.
Allora mi ritrovo, senza rendermene conto, a voltarmi indietro: ci guardo dentro, piango la mia razione residua quando preme troppo e non ne posso fare a meno – e basta.

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