Si prega di tenere a bada le lamentazioni, affinché non facciano pipì sulle poltrone a fiori [08/11/2011]

Sono arrivata al punto di saturazione.
La forza certe volte rimane in circolo probabilmente per forza – appunto – d’inerzia. Come quando cominci a prendere il ritmo della corsa e dopo pare che abbia i freni rotti, chi ti ferma più: fai tutto quel che devi fare, e quel che importa è farlo bene e poi finire.
Nel frattempo però il resto di sé è partito per un viaggio astrale, per un week-end benessere di un anno.
E io sono così stanchissima che ieri mattina vado per offrire un caffè al bar a una collega e chiedo: “Il caffè lo vuoi macchiato?”
Solo che, anziché a lei, l’ho chiesto al tizio del bar. (Che peraltro era la prima volta che lo vedevo, infatti mi ha guardata stralunato mentre mi rendevo conto del corto circuito neuronale in atto.)
Poi mi riprendo (una risata ci risveglierà?) per fare fronte alla giornata. E alla valchiria-madre aggressiva e volutamente velatamente offensiva – ciliegina sulla torta tardopomeridiana. Bassa, secca e dritta come se avesse un manico di scopa infilato su per... vabbè. Con nerissimo capello cortissimo da virago delle SS e sguardo nero negli occhi neri saettanti e carichi di sfida.
Ma anch’io so essere diplomaticamente piuttosto assertiva, sa. Se è opportuno, anche meno diplomaticamente. Lei si accontenti di guardarci dritto negli occhi e dica pure la sua, ché tanto io non ho da abbassarli, con sorriso annesso, fintantoché so e so dire il fatto mio.
E poi aspetto il prossimo caffè.
Alla macchinetta.

Ora invece sono ritornata da uno dei miei giorni che sono tutti fitti di ore come un mazzo di carciofi e foglie.
Sono stanca, adesso. Arrivo sempre stanca, quando poi resto sola. Solo allora.
Lei si è seduta sul mio letto, accanto a me, fra me e la gatta entrambe arrotolate ciascuna su se stessa.
Mi accarezza la guancia. “Sii forte, positiva.”
Io sono forte e positiva, mamma: ora mi vedi così perché, proprio per esserlo tutto il giorno, alla fine arrivo come consunta.
(Lo so, ti conosco, risponde. E aggiunge altre cose a mio beneficio riservato personale.)
“Figlia,” (nei momenti più intimi mi chiama figlia, la mia mamma) “figlia, hai tanti pensieri... Ma: su.” Mi sorride e mi accarezza. “Tua nonna diceva: Càliti juncu, ca passa a china; in vittoriese càliti junciu, ca passa a cìna. E tuo nonno diceva: U mari jètta petri. No petri, mazzacani. Ti ricordi? No? Diceva anche: Cchiù scuru ’e menzennotti cchi, po’ ffari?
“Non ho pensieri, ma’: con tutto quello che ho da fare, non ho il tempo di permettermeli – e questo è bene. Vivo il presente, è tutto qui quello che posso fare.”
Ma non immagini fino a che punto.

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