Visite – La disperanza [22/09/2011]

Dormo all’improvviso senza accorgermene.

Dal buio dell’abat-jour al buio del sogno, il passo è breve e impercettibile.

 

Forse devo di nuovo traslocare da dove stavo prima a qui.

Un cane chiaro si aggira in una stanza.

Aspetto visite: viene a trovarmi la mia amica.

Si arrotola una sigaretta di tabacco, fa per accendere, ma il gas non va: trema la fiamma.

Nemmeno la luce va. È andata via.

Sembra arrabbiata perché armeggiando in cucina parlo di qualcosa ma lei ha le sue da dire e non l’ho ancora ascoltata.

Ma lei non esprime le domande: piuttosto, reprime la rabbia.

La abbraccio, le chiedo di lei, che le è successo.

Lei risponde a monosillabi adesso.

 

E poi, sono nel letto, nuda.

Sono sola ma non sono sola.

C’è un uomo nell’angolo dietro l’armadio.

Un grosso gatto nero sopra l’armadio.

La faccia di un vecchio che aleggia in alto, fra di loro.

Forse, da qualche parte, anche una donna.

Sono solo ombre indistinte, ma io soffoco.

Ho la pelle d’oca a partire dal cervello alla fronte alla nuca al collo alle spalle fin su tutto il corpo – di sfuggita ho un ridicolo moto di imbarazzo o di vanità (anche in pericolo di vita interiore, o femmina incorreggibile) per le conseguenze epidermiche sul seno.

Ormai è un meccanismo che conosco: avemaria.

Ma comincio a pregare con gran difficoltà, senza riuscire ad articolare bene, padrenostro e avemaria – soprattutto avemaria.

Se il sogno (ma non era solo un sogno) è a un livello interiore, la preghiera è a un livello ancora più interiore – come un sogno dentro al sogno: perché loro mi tolgono il respiro mi chiudono la bocca non mi posso muovere sono come incatenata senza catene.

 

A un tratto avemaria pare che mi ascolti.

Da fuori è pomeriggio adesso: dal giardino (giardino?) entrano un bambino e una bambina che ha la cuffietta rossa in testa, e ridono.

Finché la bambina riderà, io sono salva.

Ma non ride per sempre, la luce va in dissolvenza e torna il buio poco dopo.

 

Loro sono tornati, o sono sempre lì, stanno e mi osservano, si burlano di me, qualcosa del tipo che credi di fare siamo di più e siamo comunque più forti.

Cerco l’abat-jour ma non funziona.

Succede qualcosa che non capisco per cui mi ritrovo un po’ spostata nel letto – anzi, ruotata.

Ma non sono spostata, nel sogno dentro al sogno. O sì?

Vorrei chiamare mamma, o al limite papà, per chiedere aiuto. Ma – al di là del fatto che sono muta a parte qualche suono soffocato informe disarticolato – il telefono di casa è distante.

È come essere in mezzo a un’isola deserta dove un telefono sta agli antipodi del mondo e il resto degli umani è sulla luna – e tu prova a chiamare, grida, che di sicuro c’è qualcuno che ti ascolta: quelle ombre.

Intuisco nel frattempo che i miei dovrebbero uscire con lo zio e col suo amico che mi piace tanto – o forse li sento in qualche modo parlare fra di loro.

Allora provo con il cellulare.

Ma il cellulare prima sta sul comodino irraggiungibile perché sono bloccata, poi è nelle mie mani e non funziona, non si accende: ne vengono fuori al buio solo volute di nebbia bluastra. Sono stati loro: e adesso è scarico.

Lo apro e lo richiudo per smuovere la batteria e vedere di riaccenderlo, ma emette solo un vagito da neonato e loro gli fanno il verso.

Non posso fare altro che continuare avemaria avemaria avemaria.

Loro continuano a guardarsi e ridere di me e sfidarmi.

Finché, agitando una mano nella loro direzione, sarcastica o arrabbiata, non gli dico qualcosa – o non lo taccio: non posso, ancora, articolare le parole. Ancora, ho questo velo sulla bocca come una benda per farmi stare muta.

Eppure, avendo io così reagito in qualche modo, all’improvviso sono andati via.

Spariti. Dissolti.

Senza soluzione di continuità, ritorno a respirare e riapro gli occhi.

 

Sto pregando ancora, le mie labbra si muovono. La mia stanza è la mia stanza ma non è più quella del sogno - che pure era la mia stanza, in una distorta aria asfittica. L’aria, adesso, è libera.

Pare.

Cioè, volevate solo che reagissi?

Che riconoscessi la vostra esistenza?

Che vi vivessi, in qualche modo?

Chiedere civilmente, no?

Io, ascolto.

Ma no. Il tormento voi volete.

È lo spirito dell’anima vagante.

E riscoprire che non c’è una cosa in cui credere per difendermi da queste cose.

Nessun pensiero sicuro – neppure i miei, neppure! - per difendermi da queste cose.

Perfino lui rideva, rideva, di notte, per questo: e aggiungeva paura alla paura.

 

Vorrei una sigaretta, e le ho finite.

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