Quel che sanno fare [19/09/2011]

Non so da dove arrivi questo ricordo al risveglio in un momento, o nel prendere sonno.

Lui aveva lasciato le tracce dei suoi filmini e una inequivocabile macchia di bagnato.

Gli ho chiesto in un momento di calma se volesse parlarne con me: potevamo anche condividere le cose insieme. Anche le fantasie: ero già mentalmente piuttosto aperta, in linea di principio.

Conoscevo le tendenze contro cui era in conflitto da sempre, me le aveva sempre sottoposte. Se solo le avesse riconosciute invece di cercare in me una donna schermo. Se solo io non mi fossi prestata a comprenderlo, diventando quello schermo.

Ma, invece di comprendere la comprensione, l’analista disse poi che io sbagliavo. Che dovevo comportarmi non da madre che inghiotte i rospi e parla in modo equilibrato, ma da compagna che urla chiaro quel che sente e quel che pensa. E quel che vuole o che non vuole.

Chi abbia avuto ragione in quel caso non lo so: so che di sicuro avevo avuto torto ben più alla radice, non molto tempo prima.

 

Ma stasera l’acqua corrente scorre limpida sotto il vetro e nei canali di lava scura, tra foglie verdi e piene, sotto le travi del palmento i tappeti il pianoforte e i tavoli di legno.

Una mamma tedesca bella come una tedesca ha un vestitino azzurro, lunghi capelli biondi, ridenti occhi celesti e un figlio biondo che sta a curiosare e a toccare le persone ai tavoli, per accoglierle per curiosare o per comunicare.

Il bambino siciliano, nero di occhi e di capelli, composto finché è stato sulla sua sedia, lo sfida: dai, giochiamo. Lui non capisce l’italiano, ma coglie il senso e gioca.

L’anziano proprietario propone il cibo dei monsù.

Oltre la lava delle finestre, oltre la vigna che produce l’uva di un bianco rosato dolce come il miele, brillano le luci della costa, senza meriti o demeriti: solo perché è questo quel che sanno fare.

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