Matrimoni all’italiana: le verità nascoste. [05/10/2011]

L’uno

Il tavolo è grande, di legno chiaro.

Ma non si vede il legno chiaro, perché è pieno di carte.

(...) 

Mi siedo, su suo invito, per dieci minuti un quarto d’ora giusti giusti di chiacchiera.

(...)

È un po’ invecchiato, rispetto all’ultima volta che l’ho incontrato tanto tempo fa.

Più equilibrato, anche. Nei limiti in cui può esserlo un iperattivo in preda alla carriera e un po’ confuso.

Il prossimo anno, a quarantasette, sposerà la sua ragazza che ne ha trentadue.

Stanno insieme da due anni, ormai. Dopo la donna che ha amato dal profondo, questa è la donna perfetta da sposare.

Mi dice che lei lo ama alla follia; che lui la ama ma non ne è innamorato.

Io ho la sensazione che lui le voglia bene ma che non la ami, ma sono sottigliezze.

Lo dice, che gli manca qualcosa. (...)

A quello che gli manca, lui dà il nome di cuore. Che era tutto per l’altra. La prima. Era per lei l’ardore vivo. Quello così forte che poi fa paura.

Dice: con lei sto bene. Con l’altra paradossalmente stavo male. Ma non ci vuole mica una laurea per sapere che quello che fa male è proprio l’amore.

Eppure nei giorni un po’ più grigi, quando poi viene la malinconia, è quell’altra, che gli manca.

Ma non ci tornerà: ormai, ha deciso che si sposa.

Lo ha deciso, capite? La volontà è al centro. Perché ha la sua età e prima o poi doveva fermarsi. Accasarsi. È così che funziona.


L’altro

Lui invece alla fine si è sposato, da poco, e se n’è andato in viaggio di nozze in Kenia.

Mi scrive ancora ogni tanto quando si ricorda che esistevo. Sono io che rispondo poco ai suoi saltuari reiterati inviti a rivederci.

(...)

Gli ho letto il mio racconto più bello, quando ci frequentavamo. Dove Demetra cercava, cercava: mi sono appoggiata a lui, è stato tenero.

Mi chiese allora perché non ti sei tenuta quel che avevi invece di inseguire un sogno.

Ma non inseguivo un sogno: cercavo il modo di rivivere quella passione.

La storiella noi l’abbiamo avuta quando ancora era fidanzato e già sapeva che l’avrebbe sposata.

Si comincia presto, ragazzo, come vedi: e come mi puoi chiedere, allora, perché non credo in una storia fissa.

Se proprio devi rischiare, che sia almeno per una cosa che vale la pena.


Sono andata in culo al mondo in macchina, una notte quasi un anno fa, per portargli una bottiglia di vino e dormire lì da lui. Nel freddo della casa senza stufa, con le coperte a mucchio su di noi e buon odore di muffa dalle pareti spesse.

La mattina, mentre tornavo fra strade provinciali piene d’acqua e colline infinite intorno a me, e poi l’autostrada e la Montagna che appariva finalmente in lontananza, i corvi volavano su e giù da una casa diroccata in mezzo alle colline, come fuochi d’artificio neri. E l’arcobaleno mi seguiva, più dorato qui vicino dove toccava terra.

Ma non avevo avuto trasporto per lui.

Avevo solo bisogno di guidare, quella notte.

Di vedere le colline farsi buie in lontananza contro il cielo rosa.

Nell’ora che volge ’l disio ai navicanti e ’ntenerisce il core.


La verità

C’è scritto adesso, qui nella sentenza della “sacra” rota, che il matrimonio è dichiarato nullo perché la contraente non credeva nell’indissolubilità.

Suona strano, ora che ne sei fuori e lo leggi nero su bianco, accorgerti di quanto è falso questo.

È falso.

È la prova ennesima schiacciante della falsità dei meccanismi legalmente riconosciuti a suon di quattrini, a mascherare perfino una verità profonda.


Il mio matrimonio è veramente nullo, eppure il motivo ufficiale è un falso e capovolge specularmente la verità.

Io ci credevo, nell’indissolubilità. Ci credo tuttora, nell’indissolubilità dei legami fra le persone, più di quanto non sia possibile riconoscere ufficialmente. Ero consapevole del passo che stavo per compiere, ero consapevole della gabbia in cui stavo per ingabbiarmi, della responsabilità che mi stavo assumendo. Del sacrificio a cui stavo per legarmi – e che ho portato avanti fino all’ultimo nonostante tutto: avevo fatto la mia scelta volontaria. Quanto fosse intimamente veramente libera, quella è un’altra storia.

Era lui, invece, che quel giorno, come tanti altri giorni prima e senza nemmeno rendersene conto, affermò (...) di non crederci. Dire “Se mi tradisce, il matrimonio per me è finito” significa dire “Il matrimonio non è indissolubile”. E non capiva quel che gli sfuggiva, glielo potevi spiegare in tutti i modi: la logica era al di fuori della sua portata.


Ma tant’è.

Io ero consapevole, quindi ho la piena responsabilità di quel che è stato.

Ora, come che stessero le cose, anche questa è finita.

Un altro pezzo può andarsene via.


Le verità

Verità in greco ce ne sono due.

Una è alètheia. A-lètheia. Non-nascondimento, non-segreto. Mancanza-di nascondimento, per l’esattezza: dalla radice del verbo lanthano, nascondo, preceduto da alfa privativo.

A-lètheia è la verità splanata, che non ha niente da nascondere.

Alla stessa radice di lanthano fa riferimento il fiume Lethe, il fiume dell’oblio. Quello che Dante poi piazzerà nel Paradiso terrestre in cima al Purgatorio, e bevi la sua acqua e puoi finalmente dimenticare i tuoi peccati, perché li hai scontati.

(Sedute al tavolo con l’aperitivo e i nostri fogli in riva al mare, non ha nessuna voglia di scrivere quelle relazioni ma ti aiuto io – lei gli diede un calcio da farlo gridare, l’amica le disse ma che fai?! lei dice è così quannu s’incucchiunu i fila – pulire la casa per l’amica a cena e gli gnocchi e il vino – lei che mi saluta sulla porta grassa come buddha e la cagnetta bianca che mi salta in braccio e mi lecca le mani e i lividi – la gatta fa le fusa sola sola giocando con un filino in terra e poi si prende le carezze in braccio – [...] da abbracciare e stropicciare un po’ – i silenzi le parole sussurrate i baci e tutto questo è bene.)

Alètheia è la verità non dimenticata, la verità sempre accessibile e aperta.

Ciò che è, è ciò che è, e non c’è niente da capire.

Io sono, e questo è tutto quello che io sono.


L’altra è l’apokalypsis.

Da apò e kalypto. Apokalypto con l’accento sulla ypsilon.

Ri-velo, dis-velo. Ciò che è nascosto, togliergli d’improvviso il velo di Maya e non sai mai che cosa ci trovi sotto.

(Nella notte avevo il vestitino a righe con la spalla nuda, i tacchi, delle coulotte di pizzo nero e nient’altro – non hai niente sotto? sussurrò tremando un poco, forse sorpreso, accarezzandomi sotto il vestito.)

Anche kalypto significa nascondere – da cui il nome della ninfa Kalypso, Calipso, la ninfa che viveva da sola nell’isola di Ogigia e tenne con sé quasi in gestazione Odisseo naufrago, prendendosene cura come una madre e un’amante insieme – ma che dovette, poi, lasciarlo andare perché così decretavano gli dèi: perché tornasse ad apparire nel mondo reale, dalla razionale stabile Penelope.

(Mi dissero che nella mia Circe c’erano echi di tanta mitologia – o di tanti archetipi. Mi dissero che in particolare c’era molto più della romantica Calipso che non della cinica Circe. Io non so. No, non è vero: qualcosa so.)

Se anche kalypto significa nascondo, benché con una sfumatura diversa rispetto a lanthano – quel che fa la differenza è più che altro la preposizione, apò. Dà il senso del movimento improvviso via-da. Via-dal nascondimento, nella fattispecie. Una cosa che era nascosta, a un certo momento non lo è più.

L’apokalypsis è la rivelazione di una verità nascosta, di un mistero.

Da lì nasce lo stupore, e anche il trauma.

Sia per chi si svela, sia per chi lo svela.


Ciò che permette di vivere da vivi i rapporti con la realtà credo che sia la luminosa, limpida, leale, pacificata, classica, democratica alètheia.

Ciò che colpisce l’intimo come una mareggiata o un’eruzione, demolisce e fa nuove tutte le cose – nel bene o nel male – credo che sia il fascinoso bagliore nell’oscurità, la sfuggente sorprendente apokalypsis.

Immersa nel mistero, Psiche temeva che dall’ombra saltasse fuori il drago, il mostro – accese la lucerna per svelare quanto era nascosto – ma alla luce, insieme col timore, volò via dalla finestra Eros.

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