La collana [26/10/2011]

Le ore di lavoro sono piene e gonfie e senza pause come tacchini ripieni a Natale. Tanto da andare a letto, alla fine, alle nove e mezza di sera senza quasi altro desiderare.

Le scarpe imbarcano acqua come vecchie barche a remi mezze affondate a pelo d’acqua nel temporale.

Un gatto bianco e nero si ripara dalla pioggia sotto il balcone, resta seduto impettito a guardarmi passare. Ciao, micio.

Ho infilato il naso nell’armadio delle coperte e ho annusato a lungo l’aria satura di naftalina, inebriata dall’odore pungente come succede ai bambini. Mamma ride, mi offre un sacchettino di naftalina da portare a casa per l’armadio mio, ma io preferisco venire ad annusarla qui da lei.

 

Ti penso spesso, vecchio amico mio.

In alcuni periodi, in effetti.

Non saprei bene definire quali: forse, quando sono particolarmente stanca e ho bisogno di un affetto forte e di un porto sicuro e senza strappi su cui fermare il pensiero o il cuore a riposare.

 

Ripenso il momento in cui siamo uscite dall’ascensore e tu sei apparso lì ad aspettarmi.

Alto alto, eri - mi eri sembrato più basso, a distanza, tutti quei mesi.

Con i capelli e la barba imbiancati.

Le ossa, che un tempo erano braccia e gambe piene e solide, magre come stecchi di rami fragili in inverno.

Quando ti ho abbracciato forte e mi tremavi di emozione fra le braccia.

Quando quella sera è morto il figlio trentenne della tua amica Odette: tu piangevi e io ti abbracciavo la testa canuta e bianca, ti accarezzavo le guance.

Non potevo fare altro.

 

Non so se tu abbia fatto bene o male alla mia vita.

C’è stato un tempo in cui sono dipesa dalla tua voce come dall’unica persona che mi potesse voler bene – ed eri sempre lì a sostenermi: da lontano, e da vicino.

C’è stato un tempo in cui mi sono detta che mi avevi fatto male, spingendomi a vedere tutto ciò che non andava nel mio matrimonio.

Ora, non ha più importanza.

Io, ti voglio bene.

Se mai ritornerò, ti prometto che mi porterai a vedere Santa Maria del Fiore.

Sarà come andare a passeggio con il nonno.

 

Il nonno aveva il cappello con le falde, quello ammaccato al centro della calotta come usava Humphrey Bogart in Casablanca, e un cappotto dove non credo di avere appoggiato mai la guancia. È come se lo facessi, adesso, in qualche modo.

Tu avevi la stessa età del nonno, circa – e uno sguardo d’intesa e di complicità come fra nonno e nipote e un pigiama a righe, al mattino, al tavolo della colazione con la collana dall’India, di corallo e argento, accanto al tovagliolo: quella collana che, dicesti, mi aspettava da trent’anni.

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