Gobbe e buoi [20/10/2011]

Avevo sognato la neve sui tetti e ha nevicato la prima spolverata quella stessa notte.

Ora non vorrei parlare di eruzioni perché sarebbe troppo facile: pare che le senta sempre in anticipo, certe cose, sempri ’na cosa, diventi ripetitiva, donna.

 

Il dottore ha la gobba sotto la casacca verde.

La gobba da noi si chiama ’u jìmmu.

Macàri ’a Luna àvi ’u jìmmu.

Ora dovrebbe essere calante. Non so, non si vede ancora.

Ma i poeti insegnano che la Luna, che la gobba sia a ponente o a levante, percorre sempre gli stessi sentieri muta muta e conosce la sua strada e non si annoia, mentre il leopardiano pastorello si affanna tutta la sua breve vita fino a inciampare nell’ultimo precipizio.

Tutto sembra uguale da quassù, e niente è mai uguale da quaggiù.

 

A volte mi dico: è uno sperpero.

Questo prendere e vagare in lontananza con la macchina da sola quando posso.

Invece non lo è: chi me lo deve dare mai, se non ci vado io, il colore del cielo al tramonto nel silenzio in solitudine dopo tante ore di troppe persone e cose da fare.

Il cielo comunica a colori e non chiede niente in cambio: sta lì per chi abbia voglia di restarci un poco dentro.

Sarò melensa ma è quel che sento, quello di cui ho bisogno.

 

Il caldarrostaio, dopo, sta seduto sul bordo della lapa illuminata, con un coltello in mano e le castagne. Ci fa dei tagli sopra per arrostirle. Il fumo denso riempie l’aria.

Era rosso, quello che ho visto prima in lontananza all’orizzonte brillare incima alla Grande Madre: Magma Mater.

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