Centum Ripae [08/10/2011]

Running in circles, coming up tails.

Heads on a science apart.

(Coldplays, The Scientist.)

 

È il nome latino di Centuripe.

Centuripe ha una forma a stella, ma sembra anche il profilo del corpo di un uomo.

Andammo a Centuripe anni fa. Tra il 2000 e il 2005, non ricordo.

C’era il museo coi vasi greci, quelli a figure rosse su fondo nero e viceversa.

Una sera poi, era forse febbraio del 2009, presi la macchina e mi fermai all’uscita dell’autostrada verso Catenanuova.

<Qualcuno> mi aspettava lì.

(...)

 

Eravamo in discoteca nell’inverno o nella primavera del 2009 (...).

Chiacchieravamo e io ridevo, non cercavo niente, non mi aspettavo niente, e avevo i miei pensieri. Privati, personali, a tenerli al caldo dentro.

Mi mise una mano intorno alla vita per guidarmi.

Mi discostai infastidita.

Avevo altri pensieri - privati, personali, a tenerli al caldo dentro: che nessuno si permetta di sporcarli.


C’è un lago con un borgo sopra, che si chiama Zell Am See.

Zell Sul Lago, vuol dire.

Zell non me lo ricordo, che cosa significa – sempre che qualcosa significhi.

Il cielo era grigio una decina d’anni fa, e i pavimenti di legno, e da lontano ci avvolgevano montagne.

Uscivamo con le giacche a vento e il berretto di lana e i guanti, la sera.

In un pub col caminetto al caldo, abbiamo scoperto certe patate con il burro e una fonduta che tornammo a casa rotolando con le papille in festa e infreddoliti.

Dopo dovevamo recuperare il cibo in eccesso scarpinando a lungo.

Più che altro però viaggiavamo in giro a vedere i posti nei dintorni.

C’erano piantagioni di tulipani, poi, dall’Austria verso la Germania.

Ma le pianure mi hanno sempre dato un grande senso di desolazione e vuoto.

A Colonia ci aspettava il duomo neogotico con i suoi riccioli, gli spazi svettanti e, al civico 4711, la fontana di profumo.

Siamo usciti di là immersi dentro a queste nubi d’acqua di Colonia che usciva fuori da una botte di legno.


La frutta martorana non è frutta, è un tipo di pasta di mandorla pressata.

Le danno la forma e i colori di questi frutti - fichidindia, pesche, uva, fichi - che poi, se fatti ad arte, sembrano quasi veri. Ormai, anche di pesci nei canestri e di altri alimenti variopinti e lucidi.

La tradizione vuole, se non sbaglio, che sia nata a Palermo.

Lì c’è la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, sapùta sèntiri anche come la chiesa della Martorana.

Tra gli affreschi bizantini, uno rappresenta Cristo che incorona Ruggero II. Ma ho barato: ho dovuto controllare adesso, per ricordarmelo.

All’università sapevo tutto per benino, poi l’ho vista una volta sola più di un anno dopo, troppo tempo, di sfuggita perché si era fatta l’ora di chiusura.

Allora mi portò di fronte, nel panificio migliore, a mangiare ’u pani ccu ’a meusa sotto gli stucchi e gli affreschi.

Era uno stanzone con dei vecchi tavoli e un senso di gran freddo alla vista.

Ma nel pane ci mettono dentro, insieme con questo ammasso molliccio delizioso che si scioglie sulla lingua, anche la ricotta salata.

Fino ad allora, avevo provato solo il pane e panelle. Che con una fetta di melanzana fritta oleosa è la morte sua ma non ce la mette nessuno, così ti resta il senso di questa frittella di ceci impastata in bocca insieme con il pane.

Ci mise la melanzana invece una signora che lo vendeva sulla porta di casa.

Potrei tornarci, a Palermo, per (...) portare nuovi omaggi sulla tomba di Federico II Imperatore.

(...)


Era notte, al rifugio sull’Etna sopra Nicolosi.

Faceva freddo, fuori.

Il cielo era limpido e una cometa passava in quei giorni.

I ragazzi del gruppo avevano montato il telescopio: a turno, ci infilavamo il naso dentro e la guardavamo.

Anche la luna, con i suoi crateri e i mari, e Giove con la Grande Macchia Rossa e i satelliti e gli anelli: tanto la cometa andava con calma, c’era tempo.

Faceva freddo, nonostante il camino, anche dentro.

Uno aveva i capelli ricci, forse si chiamava Francesco o forse Fabio o Luca o Luigi, era carino in viso e non mi considerava.

L’altro si chiamava Orazio come un cavallo, era meno bellino ma più ponderato e fascinoso, arrivò col suo berretto di lana e mi chiese: hai freddo?

Mi offrì una cioccolata calda e, un’altra sera, mi cercò fra le persone.

L’ho rivisto un paio d’anni dopo quando sono andata a trovarlo a Scienze Naturali: era il 2000, ormai.

Mentre parlavo con calore e una certa animazione, mi guardò con un sorriso sorpreso affascinato e invaghito tutto il tempo.

Niente a che vedere con l’uomo caldo di cui ricordavo il profilo in ombra mentre guidava.

Quella sera in cui mi aveva offerto un panino.


Enna è la città di Demetra e di Persefone.

C’è il lago di Pergusa dove una volta c’era un bosco e adesso c’è un circuito automobilistico.

Ci siamo messi una volta a vendere panini per arrotondare lo stipendio, tanti anni fa.

Non c’era una corsa d’auto ma una riunione di berlusconiani.

Solo per questo, mi volevo rifiutare.

Mi vergognavo un bel po’, davanti a me stessa – non di vendere i panini che avevamo imbottito il giorno prima fino a notte, ma di stare lì fra quella gente persa appresso alla demagogia al potere.

Però a Enna città ci ha dormito pure Cicerone: c’è una casa antica con una targa, lì dove dormì al tempo delle Verrine nel processo – a proposito – per concussione in cui difese i siciliani contro il corrotto Verre.

Ci sono i boschi, intorno al monte, ancora.


Abbiamo fatto colazione una mattina a inizio dicembre un paio di anni fa al bar antico all’angolo in periferia di Perugia.

Fra casette basse di pietra e gerani ai balconi e rampicanti.

Non era distante, l’agriturismo, a un paio di chilometri dietro di noi che andavamo a prendere i suoi figli.

I ragazzi erano dalla madre e avremmo passato anche la serata insieme.

(...) Ha detto, senza crederci: esci dalla mia testa, strega. E mi ha detto: lo faremo. E mi ha preparato una sorpresa, un giorno, che non ho colto perché dovevo (volevo) andare via: avevo, nonostante tutto, altri pensieri e il cuore stretto.

Mi verrebbe il desio di ritornare per due giorni lì, lontano, e non pensare a niente.

Lasciarmi fare quel regalo, portargli di nuovo qualche cosa anch’io. Vedere dove portano i suoi cavalli e che cosa c’è da vedere sulle colline e in mezzo ai boschi.

O, forse, ho solo il desiderio di andare dove va la macchina.


Seduti al tavolino bianco sulle sedie di metallo, mi guarda con un occhio.

L’altro no: l’altro vaga per suo conto perso da qualche altra parte. Ogni tanto si ricongiunge con il titolare.

Piacevolmente chiacchieriamo in questo modo in due.

Fino all’ultimo non svela il suo nome per intero. Per Ale l’ho conosciuto e più di cotanto morfema non è mai andato. Quando vorrai svelarmi il mistero, sarà l’apocalisse.

Finalmente si decide: via il dente, via il dolore. Pasqale. Senza la u.

Così sghignazzo amabilmente, non so però se apprezzi veramente. Infatti, anche se ride, dice stronza.

Lui dice il mio aspetto e i miei occhi e il mio cervello, io dico solo il suo cervello e basta. E per forza: posso mica pigliarlo per il fondello, con quell’occhio. (E certo che non vorrei dire, ma fra l’occhio e il nome, figlio mio gioia...)

Non ci sono doppi fini da parte di nessuno dei due, se non due chiacchiere da conoscenti.

(...) Così (...) gli posso anche offrire una sigaretta arrotolata a salsicciotto. Non sono brava, ancora, ad arrotolare sigarette.


Poi parto, da sola, per il mio vagare.

Che non ha un fine né si aspetta una fine.

Semplicemente, è qui che il presente si intreccia col passato e il mio animo s’intreccia con la terra ancora umida di pioggia e con il cielo.

C’è solo un orizzonte orizzontale di nuvole arancione, si accende dell’ultima luce il profilo delle colline in lontananza.

E l’Etna è di nuovo in eruzione.


Giusto *** mi dice stamattina, sobbalzando apprensiva ai camion che sorpasso: Attenta.

Sono attenta, stai tranquilla: sono io che guido, non ti fidi? Ho un mezzo sorriso sulla faccia, la accarezzo.

Tu non sei prudente, dice.

Non è vero, io sono prudente.

No, non sei prudente: siccome sei brava, superi i limiti e lo sai; per questo, semmai, sei attenta.

E forse, in parte, è anche vero: dopotutto, a volte, siamo anche quello che sembriamo.


Accarezzo la gatta che mi aspetta.

Ritiro le lenzuola asciutte, in casa al riparo dal vento di tempesta.

Poi preparo l’insalata di carote e mele.

Mi chiuderò in un monastero, prima o poi.

Restarci il tempo di riprendermi i miei tempi e il mio contatto con me stessa, con la mia terra fertile, e con quello che vale la pena veramente – con quello che si sente

(...)

C’è odore di ginestra e miele.

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