Tante domande [25/05/2011]


 

Some people call me the space cowboy.

Some call me the gangster of love.

 

Carina, eh?

Per me è carina.

Stephen King vi si deve essere ispirato per scrivere Il gioco di Gerald: infatti lì ne cita alcuni versi.

Solo che nel romanzo il cowboy dello spazio, il gangster dell’amore, non ha niente di lieve e leggero: quel sorriso musicale si trasforma nella smorfia scheletrica di un pazzo.

Il gangster dell’amore diventa un essere lugubre: si aggira di notte nei cimiteri per rubare ossa ai morti. E a un certo punto capita nella casa di Jessie, che è rimasta ammanettata al letto con un marito morto ai piedi e mezzo sbranato da un cane. E il cowboy spaziale decide di rubare gli ossicini pure a lei che è ancora viva.

È un romanzo paranoico, come diversi di quelli di King.

Hanno funzione catartica, questi parti letterari. Io ne so qualcosa.

È tutto giocato sul filo del rasoio tra la paranoia e la fondatezza delle sensazioni.

Lei non sarà sicura di aver visto il cowboy fino alla fine.

No, non è vero: lei sa di averlo visto in casa finché era ammanettata; sono gli altri, a non crederle fino alla fine. Quando lui verrà arrestato e visto da tutti.

Allora vedete, non erano le fantasie di una traumatizzata paranoica. Era vero, avevo ragione, e adesso è tutto vero e adesso io sono salva.

Anche se, dice Kurt Kobain, “Il fatto che tu sia paranoico non significa che non ti stiano dando la caccia.”

 

L’hanno passata oggi alla radio, questa canzone. Così mi è ritornato in mente il romanzo.

E, siccome a scuola si parla di Pirandello, mi è venuto l’appetito cerebrale di documentarmi sui disturbi paranoici o paranoidi della personalità. Perché un po’ tutti prima o poi veniamo ossessionati da un pensiero da un fatto da una persona o da un’idea. O da noi stessi. Dal Sandmann di Hoffmann a Vitangelo Moscarda con il suo naso storto e i loro rapporti con il perturbante, a tutte le persone che conosco: per amore o altri assilli, non ce n’è uno che si salvi almeno una volta nella vita.

Non ne sono esenti nemmeno quelli che spostano il problema invece di affrontarlo.

Fa parte dell’essere umano. Il che mi conforta, devo dire.

La soluzione sta nell’apertura.

Ora, l’apertura non sempre è possibile. O non sempre la rendiamo possibile, per cause oggettive o soggettive, finché non capiamo dove sta l’impasse portandolo alla luce per risolverlo.

Finché non ci tagliamo con quel vetro il polso fino a farlo sanguinare per renderlo viscido e poterlo sfilare dalla manetta che ci imprigiona al letto.

 

***

 

È la seconda volta, oggi, che mi si chiede di leggere le carte.

Spesso mi chiedo quanto ci sia di fondato e quanto invece non lo sia.

Posso dire? Mi dicono che indico correttamente fino i dettagli. Il che mi inorgoglisce.

Al che però mi chiedo quanto sia a loro che serve venire da me a chiedere – e quanto serva invece a me sapere di avere la conferma che sono sul pezzo.

Che non sono dissennata.

O paranoica, per l’appunto.

Perché questi canali possono aiutare a focalizzare un problema per capire da dove partire per risolverlo, ma in certi casi agevolano meccanismi che rischiano di privare del coraggio della vita vera.

Non so, non si può che procedere per via induttiva.

Aspetterò ancora le prove del fatto che posso anche essere una visionaria, ma che questo non esclude necessariamente la veridicità.

 

Prendi il ragazzo che ha scoperto la fede. Che si chiude dentro ai suoi preconcetti e cerca di imporli pure a noi per difendersi da un mondo esterno dove lo aspettano... cose brutte che ha vissuto, ecco.

Tutta sacrosanta la sua scelta, per la carità.

A parte che ho seri dubbi sul fatto che sia una scelta consapevole e solida. Ma, più che dubitare, non posso che rispettare.

Finché lui oggi non mi arriva con aria sognante angelica e mi fa il predicatore ispirato da antico testamento in cerca di proseliti – o Osea.

A me.

Professoressa, quando avrà trovato Cristo capirà che non può fare altro che chiudere gli occhi e affidarsi a lui.

A me.

Al che mi secco un po’.

I compagni ascoltano: a tratti gli dicono dai piantala sempre la solita storia. Evidentemente il discorso profetico non è nuovo. Ma non sa forse, lui, che le profezie sono veridiche quando si entra in relazione, in corrispondenza d’amorosi sensi, con il prossimo.

Così gli dico: No, non mi hai incuriosita (visto che mi dice che ritiene di averlo fatto): mi hai infastidita, francamente. Fermo restando che questo esula dal rapporto scolastico e non avrà ricadute di sorta: in questo discorso siamo al di fuori dei ruoli.

Non sia così razionale, si lasci andare in Cristo, mi dice.

E incomincia a parlarsi addosso.

 

Io?

Io non sono mai stata tanto attaccata alla vita.

So che a volte sento le cose senza averlo chiesto. Anche mio malgrado.

So che a volte sbaglio nel sentire e so che a volte sbaglio nell’agire.

So che non sempre sono in grado di riparare e questo mi fa male.

So che proprio per questo non smetto mai di cercare la mia autonomia nello studio e nella consapevolezza.

So che questo forse non mi darà il paradiso se esiste ma che, ovunque io sia diretta, ci andrò con i miei piedi.

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