Didjeridoo [08/05/2011]

Il mercato di Catania non si chiama mercato: si chiama ’a Fera ’o Luni, la Fiera del Lunedì.

Fa odore di pesce dove è rosso dei gamberi e del sangue del pesce spada, e poi fa odore di olive e di sottaceti nella zona delle olive e dei sottaceti. Ci sono cartoni o scatoloni pieni di foglie di lattuga marce da buttar via.

Ci sono i corridoi delle scarpe colorate fucsia o leopardate per andarci in giro e farsi ridere dietro, scarpe comode e anche qualcosa di mettibile.

Ti strisciano sul corpo le stoffe e i vestiti, l’intimo velato per la prostituta o per il gioco delle trasparenze nelle intimità più fantasiose.

Ombretti rossetti e creme per il corpo stanno sotto il sole e devi stare attenta se sono scaduti ma, se non lo sono, sono convenienti.

I rivenditori gridano, i bambini piangono, la folla ti arriva addosso in forma di calca indistinta come onde di marea.

Certe volte, e per alcune cose, mi fa pensare al suk tunisino con i suoi costumi orientali le spezie e i tunisini che mi venivano incontro per vendere i prodotti caratteristici made in china all’occidentale civilizzata made in sicily.

 

Qui, invece, il mercato si chiama mercato; le stoffe colorate sono in bell’ordine, i bambini non piangono, i rivenditori non gridano, le persone camminano anziché arrivarti addosso.

È meno colorato, forse. Il che cambia la sostanza: sei in un mondo civile, sulle strisce ci stai tu passante e hai perfino il diritto di ribellarti se la bici fa tanto di non darti la precedenza.

Francamente sono più abituata ai colori scoordinati dei rivenditori siculi con cui scambi due chiacchiere e contratti il prezzo, e ai neri sotto i portici che mentre passi ti dicono bella un dvd taroccato solo a un euro, piuttosto che alla tipa cinese che più di due euro di sconto non ti fa e pare che le abbiano infilato un manico di scopa su per il didietro tanto è tirata – e dire che tra me e la mia compagna di passeggio le abbiamo svuotato una bancarella: poteva anche arrotondare, anziché far finta.

 

L’orto botanico è un giardino in ordine con le siepi tagliate in ordine e i fiori disposti in ordine davanti al palazzo rosso sede della facoltà di biologia.

La cripta è la parte più bella. Fa freddo ed è un dedalo contorto, roba affascinante da ambientarci un film. La stanza fredda e i frigoriferi hanno ciascuno la sua temperatura, acidi e basi sono in ordine anche loro, gli acidi a destra le basi a sinistra.

Dentro ai corridoi ci sono le provette e le centrifughe, e calli (mi pare che si chiamino così) di piante messi a coltura, verdi come fette di cavolfiore verde, in quelle scatoline tonde trasparenti sotto le luci bianche. Un ragazzo col camice bianco il capello rasta e la faccia arrossata dalle luci sta a studiare le sue colture.

Ma si sa, mutanti e clonazioni sono cose molto più piccole dei mostri che si immaginano a nostro beneficio gli inventori di kolossal da darci in pasto.

Sono cose apparentemente più banali, ma molto più grandi e interessanti, grazie ai mitocondri, all’osmosi e al dna o anche semplicemente all’arcaico solitario archetipo rna.

 

Fuori, attaccato a un palo, c’è un annuncio: si impartiscono lezioni di didjeridoo.

Quello strumento a fiato degli aborigeni australiani. Gli danno fiato e da lontano, nella solitudine nel vuoto e nel silenzio, si avvertono le vibrazioni profonde a risuonare dentro il petto.

Ma come si fa a dare lezioni di didjeridoo. O lo senti o non lo senti. O lo erediti o non ti appartiene. E non lo erediti qui e oggi dove c’è il caos e troppa gente: lo erediti dai tempi antichi, e lo senti solo nell’eco degli spazi fra le persone.

Quando sono spazi aperti e senza interferenze, per lasciarlo risuonare.

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