Carne [18/05/2011]
Avevo circa quindici anni, la prima volta che ho preso una lametta in mano, e forse diciassette l’ultima. Due volte in tutta la vita. Niente di anormale. Forme depressive adolescenziali, immagino. Un senso di assenza di sbocchi e di impotenza. Un senso di assenza di prospettive e di vita.
A volte quello smarrimento mi capita ancora, quando sbocchi pare che non ce ne siano.
Ma senza lamette.
Allora a undici anni certe volte la notte immaginavo mondi astratti e contatti puramente spirituali, e a quindici scrivevo di gabbie e vetri o muri soffocanti nella testa.
Non che non ci creda tuttora, nei contatti spirituali. Anzi.
Ma passano attraverso il corpo e i sensi. Come il magma, come il sangue.
L’acqua fresca del mare piatto attorno alle caviglie. Un papavero rosso, aperto, accanto al muretto. Un cane bianco alto come un cavallo accucciato accanto ai piedi. Il mio uomo nel mio letto a tenermi al caldo l’anima.
Lo sai dopo, ogni volta, che cosa mi ha fermata? Vedere la lametta avvicinarsi e la vena azzurra pulsare sotto la pelle bianca e morbida del polso. Il sangue scorreva, scorreva, sotto la pelle.
Il corpo mi ha salvata spesso. Scoprire la mia presenza nell’identità con il mio corpo. Sentire come è fatto. Abbracciarmi le spalle e sentirle solide e lisce. Il seno e la pancia sotto l’ombelico, dove fa un incavo fra le creste iliache. Mentre la gatta si alliscia da sé il pelo.
A volte l’ho tradito, il mio corpo. A volte no.
Ho imparato dieci, quindici o vent’anni fa, per fare pace con me stessa, a farmi da me le carezze sulle guance.
Ogni tanto mi ritrovo a darmi i bacetti al braccio: mi piace la mia carne, è calda; la mia pelle è di seta; il mio odore è dolce.
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