Pomodori freschi [29/01/2011]

Per esempio: c’è un piano dell’essere e un piano del non essere. Un piano in cui si vive e un piano in cui si fa un minuto di silenzio, un attimo di pausa, un quarto d’ora accademico per riprendere le fila.
Non che sia una grande scoperta filosofica. È riflessione spicciola alla femminina e sottende solo una costante dichiarazione d’intenti.
Vivere significa comunicare, toccare le cose e le persone. Fare quello che si fa.
Quando si fa una pausa nel flusso vitalistico, per così dire, allora ci si mette in ascolto, forse a cercare un senso al vissuto o al non vissuto. Con il rischio di non trovarlo, un senso.
Io per esempio ci ho i criceti mannari, ma questo si sa. Forse questo succede perché la vita non si può fermare a nessun livello, e se ti fermi quella continua in qualche altra forma perché c’è qualcuno che le ha dato la carica a monte.
Però è anche vero che, per esempio, nel momento in cui arrivano pensieri difficili da gestire o da rielaborare e ridimensionare per non lasciarsene schiacciare, allora o ci si chiude o ci si confonde o si affonda.
I due momenti stanno in equilibrio precario costante per tutti, immagino. Però agli occhi del mondo ognuno passa di volta in volta per ottimista o per pessimista a seconda che stia più dalla parte della vita vera o della sega mentale coatta.
Prendi per esempio Socrate Ariosto e Federico II da una parte, i miei modelli metafisici, e un Kierkegaard (Camposanto, nomen omen) un Musil o un Leopardi dall’altro.

I secondi passano la vita a farsi certe seghe mentali di dimensioni spropositate, che manco il Resegone di manzoniana memoria. A sovraccaricare ogni evento ogni gesto ogni momento con valenze negazioniste, detto in soldoni e in termini profondamente profani da una profana.
(No, Leopardi no, non esageriamo: non mi calunniare Giacomino, adesso, femmina blasfema.)
Non che di valenze non ne abbiano, tutte le cose che ci sono o una buona fetta di queste, intendiamoci. Però non possono mica essere tutte pesanti, signori miei: leggerezza non è sinonimo di superficialità.
Capisco Leopardi che poverino non faceva l’amore manco per sbaglio e allora proiettava il suo bisogno di affettività anche fisica in un rapporto impossibile con la Natura. E però vedi una donzelletta che vien dalla campagna, ma figlio mio guardala e basta, è lei, è ora, bella con i capelli da immaginare di passarci le mani e col decolletée fiorito da immaginare di affondarci la faccia: invece di metterti davanti tutte le difficoltà e le prove a carico, prova a scollare il naso dai libri e offrile un caffè se ne vale la pena. Anche rischiando di non saper gestire poi l’emozione di un sì o la batosta di un no, e i dolori che immancabilmente arriveranno quale che sia l’esito del caffè stesso.
E poi chissà Kierkegaard e Musil che problemi avevano. Questo non lo so, sono impreparata. So che ho iniziato a leggere L’uomo senza qualità una volta a un amico carissimo a voce alta ma poi mi stavo suicidando, già che non era periodo per me visti gli eventi allora contingenti.
Ora, a parte le notazioni a margine chiedo scusa. Dico, non che questa tendenza malinconica o peggio li privi di valore, ci mancherebbe, e chi sono poi io per dirlo? Sono grandi, punto.
Però ho anche la mia testa e con loro non sono d’accordo. Anche se poi io, per esempio, Leopardi in particolare non posso non adorarlo. Fosse anche solo per le sue visioni per i suoi notturni per le sue lune malinconiche e per i suoi interminati spazi e sovrumani silenzi ove per poco il cor non si spaura.
Certo poi con i ragazzi ci gioco, con le malinconie ossessivo-depressive delle sue Ricordanze. Ma è solo per mostrar loro quanto in effetti è accessibile, comprensibile, condivisibile la prospettiva del pastore asiatico come trait d’union fra la luna e la sua greggia.

I primi tre, poi, non sono certo nemmeno loro gente che non sappia rielaborare, direi. Solo che rielaborano in funzione della vita. Pensa Federico che fuma il narghilè col sultano per farsi dare il Santo Sepolcro. Ariosto che mi sono innamorata di Alcina e delle sue trasparenze e di Bradamante corazzata amante. O Socrate che passeggia bel bello con la sua toga bianca appena stirata da Santippe, in giro per i marciapiedi dell’agorà, buttando un piede in qua e un piede in là nei sandali di cuoio, e al mendicante che lo ferma per chiedergli un euro o al servetto che si accinge a comprare i pomodori per la casa si mette a chiedere Oibò che bei pomodori, Cristoforo Colombo ne sarebbe fiero, e come va? Ma lo sai tu che un tale Euclide ha inventato delle leggi sul triangolo che si chiamano teoremi? E le conosci? No? Ma tu credi di non conoscerle, sta’ a vedere come ti dimostro in quattro e quattr’otto che le sai anche se non sai di saperle.
E intanto si fece l’una e il verduraio smontò il banchetto della verdura per raggiungere il desco familiare e il servetto si prese anche le frustate di ritorno a casa per non avere fatto la spesa.
Però aveva scoperto il teorema di Euclide.

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