La civita viaggia in autobus [13/02/2011]
Nei pressi
dell’Ostello non trovi più niente di quel che c’era prima. Ormai da anni ci
sono ragazzi motorini birra e frastuono, troppo per sapere cosa dire. Qualcuno
mi raccontava le barzellette e qualcun altro analizzava i casi umani seduti al
nostro tavolo.
Una volta
eravamo scesi di sotto a vedere il fiume che scorre e gli ultrasuoni per tenere
lontani i ratti dai tavolini di legno e dalle luci soffuse per chi pagava di
più per poter cenare accanto al fiume.
Ma fuori.
Fuori non ci sono le vecchie a ricamare.
Ci sono
porte aperte e le luci accese in una luce bianca finta di neon finto su fino
alle volte stuccate che stuccate non sembrano più per via di quel gran bianco.
Fuori stanno
stese robe scure tutte in fila a passarti sulla faccia se cammini sul
marciapiede senza scostarti.
I vicoli
della civita la sera sono neri di lava e umidi dell’acqua del mercato
e della pescheria.
La pescheria
sta sotto gli archi delle mura, fra i tonfi dei coltelli sullo spado e sopra il
marmo di giorno e le grida dei pescivendoli e l’odore di mare appena pescato.
Ma la civita
perlopiù la incontri sugli autobus.
C’è un
vecchio che non è della civita, faceva il professore una volta dicono, e quando
arriva lo senti a distanza perché va in giro in questa puzza di piedi o di
qualcosa che è in cancrena.
C’è una
vecchina bianca di capelli e dritta come un fuso nei suoi tailleur rossi e il
collo di pelliccia. Avvisa tutti di stare attenti ai borsaioli, pare un addetto
alla sicurezza generale. Una volta si è spaventata tanto da pisciarsi addosso,
ha cominciato a invocare il ginecologo dicendo che le si erano rotte le acque.
I vecchi col bastone appoggiato fra le ginocchia
parlano del governo e degli autobus che non funzionano, le vecchie chiedono
quando passa il ventinove e parlano con le nipoti strizzate in jeans e
magliettine troppo strette e con gli occhi neri di trucco. Oppure raccontano
della fuitina a dodici anni e del matrimonio e dei figli avuti da bambine.
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