Barocche suggestioni [27/01/2011]

Fuori ci sono fiumi d’acqua per le strade. La nebbia ispessita dalla pioggia avvolge le cose, e le nuvole avvolgono il cielo tanto che i fulmini si vedono appena.
Dentro, si apre una porta e ad aprirla è E***.
E*** è, oggi come allora, bassina e magra magra, piccola come una bambolina. Ma non ha più i capelli castani e ondulati come quindici o vent’anni fa: li ha corti, pettinati di lato e bianchi come la neve. E, oltre gli occhiali da gatta, sono trasparenti gli occhi azzurri.
Entrare in questa casa è come entrare in un ingresso piccolo fatto di legno, tappeti e luce gialla. Lei deve cambiare il pannolino a suo marito, così la aspetto in salotto.
E qui mi perdo.

Saranno dodici, sedici metri quadri, ma non ne puoi avere la percezione chiara perché è così pieno di cose che lo spazio cambia forma e dimensioni, si dilata e si restringe a seconda del modo in cui l’occhio si sofferma, analizza, si districa e vaga dall’una all’altra parte, dal dettaglio, alla visione d’insieme, al particolare, dal grande, al piccolo, al grande.
Questa stanza non ha più pareti, non ha pavimento: ci sono tappeti, tende, arazzi, quadri, mobili, oggetti, specchi, immersi nell’odore caldo e polveroso di stoffe antiche.
Intanto mi ha detto accomodati, e allora dove mi accomodo. Sul divano con la cornice in legno intagliato e dorato e il rivestimento in raso verde acqua damascato? O su quest’altro di un bel rosso scuro sulla parete di fronte? O su quell’altro nell’angolo?
O nelle poltrone. Quattro o sei poltrone abbinate al divano verde; due sgabelli, con due cosi che sembrano braccioli, che se ne stanno addossati al divano gemello per non sapere in quale angolo andare a mettersi senza stare in mezzo ai piedi. Poltrone rosso scuro in giro, e sedie.
Le sedie di legno con lo schienale col buco o senza buco, con la seduta imbottita o di legno, con i piedi intagliati o dritti, sono tante che non ci entrano tutte. Tre o quattro se ne stanno con le spalle appoggiate alle tende bianche, come stanche a riposo o in attesa di qualcosa. Dietro a un telo bianco per proiettore, due sgabelli di legno scuro bassi, retti da leoni con una coda lunga, grossa, solida, fallica.
(È un posto da farci l’amore, questo, come la Maya desnuda o una Sheherazade decadente fra nuvole d’incenso in penombra.)
Troppi posti a sedere fra cui scegliere: per questo non ne scelgo nessuno. Resto in piedi a guardare per ficcarmi bene in testa almeno qualcosa in tutta questa profusione.
Dietro il telo per il proiettore (serve per il cineforum, mi dirà G*** più tardi), c’è un comò forse, con in cima un ripiano di marmo e sopra bambole vasi vasetti e un angelo di Caltagirone in mezzo ai fiori di Caltagirone, bianchi su sfondo blu. Poi la testa rosa azzurra e verde di un puttino immenso fra due ali, come quelli affrescati da Michelangelo da qualche parte o da qualcun altro altrove.
Accanto, una vetrina di legno e vetro. Terrecotte; vasi e vasetti greci; la testa di uno gnomo che sorride o ghigna intagliata in un pezzo di legno con tutti i rametti lasciati in su come capelli di sterpi o di fuoco; un grosso pezzo di corallo, conchiglie, cornici grandi come una falange del mio dito.
Alle pareti, sei o sette ventagli dipinti con scene conviviali settecentesche su sfondi alberati, dame in crinolina, cicisbei e violinisti. Due profili rinascimentali. Un notturno orientale blu, con una donna un uomo e uno specchio.
Arazzi al posto delle pareti. Due, grandi. La dama l’unicorno il cane il gatto il pavone l’ancella. E la dama che suona un organetto su sfondo bucolico.
Sotto uno degli arazzi, un ripiano basso e armi. Una pistola a due canne col calcio rigonfio in legno con ornamenti forse bronzei; un’altra pistola a una canna sempre in legno; ancora pistole, una balestra, due o tre fucili o baionette intarsiati con foglie di madreperla e riccioli d’argento; una spada corta con l’impugnatura in legno intagliato e in legno intagliato la sua guaina. Appoggiate alla parete, come gran dame o come emule di Bradamante la donna guerriera, una lancia con l’asta intarsiata in argento e madreperla; e un’altra, a doppia lama variegata grigio ferro e grigio più scuro, l’asta rivestita in velluto rosso con un cordoncino rosso e oro che termina in due nappe oro e rosso. Appesa assieme a queste, una corta sciabola dalla lama ricurva nella sua guaina ricurva nera con intarsi di madreperla e d’argento.
Di fronte, accovacciato di nascosto da una parte dietro a una poltrona, sta un cane alto una trentina di centimetri, verde e senz’occhi digrignando i denti. Un altro cane, un alano credo, alto forse un metro, impettito e dipinto di bianco con gli occhi dipinti e col suo collare dipinto di bronzo guarda nobile pacifico e rassegnato da qualche parte accanto a me o verso le alabarde.
Dietro a un divano, al posto di un pezzo di parete, una consolle dorata regge sul ripiano un vassoio immenso di vetro, pieno di uva di vetro verde rossa gialla, sovrastata da uno specchio dorato a figura intera in cui tutto, e tutto, e tutto, si moltiplica.
In mezzo, finalmente, mi vedo per intero.

Entra in casa il figlio G***, di cui a tredici anni mi ero innamorata. Ora ha una moglie, una bambina, le gambe corte e la voce fessa, alta e nasale. Sa un sacco di film ignoti che a giudicare dai titoli sembrano molto cerebrali e interessanti.
Ci veniamo incontro per una stretta di mano e mi dice, con convinzione: Non ti ricordavo così bella!

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